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Non vi era errore di fatto da parte dei giudici. Rigettato il ricorso per cassazione dell’Agenzia delle Entrate (già soccombente nel giudizio per revocazione).

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Estratto: “è noto che, in generale, l'"errore di fatto" rilevante ex art. 395 c.p.c. consiste in una falsa percezione della realtà, in un errore, cioè, obiettivamente e immediatamente rilevabile, tale da aver indotto il giudice ad affermare l'esistenza di un fatto decisivo incontestabilmente escluso dagli atti o dai documenti di causa, ovvero l'inesistenza di un fatto decisivo positivamente accertato in essi, e sempre che tale fatto non abbia costituito un punto controverso sul quale sia intervenuta pronuncia, sicché l'errore deve apparire immediatamente rilevabile senza che la sua constatazione necessiti di argomentazioni induttive o di indagini ermeneutiche, non potendo consistere in un preteso inesatto apprezzamento delle risultanze processuali, vertendosi, in tal caso, nell'ipotesi dell'errore di giudizio, denunciabile con ricorso per cassazione (…); né rientrano nella nozione di errore di fatto, denunciabile mediante impugnazione per revocazione, i vizi relativi all'interpretazione della domanda giudiziale (Sez. 6-L, 15 marzo 2018, n. 6405), così come la valutazione, ancorché errata, del contenuto degli atti di parte e della motivazione della sentenza impugnata costituisce errore di giudizio e non di fatto".

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Corte di Cassazione, Sez. 5,

Ordinanza n. 5816 del 3 marzo 2020

Considerato che:

 1. la CTR dell'Abruzzo-Sezione staccata di Pescara ha rigettato il ricorso dell'Agenzia delle Entrate per la revocazione della sentenza emessa dalla medesima CTR in accoglimento dell'appello della società di diritto inglese C. L. contro la sentenza della CTP di Pescara che aveva rigettato il ricorso della predetta società avverso il diniego parziale di rimborso dell'IVA (rimborso inizialmente riconosciuto per gli anni 2004, 2005 e 2006, ma non per il 2003, stante l'intervenuta decadenza) pagata in Italia sugli acquisti effettuati prima della data (20 aprile 2006) in cui C. aveva proceduto all'identificazione in Italia ai sensi dell'art. 35-ter del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633;

2. la CTR - richiamata la prospettazione dell'amministrazione secondo cui essa sarebbe stata erroneamente condannata in appello a rimborsare alla società non solo l'IVA pagata nel semestre precedente all'identificazione (in applicazione del principio espresso da Corte di Giustizia U.E., 21 ottobre 2010, in causa C-385/09), ma anche quella riferita agli anni 2004 e 2005 - ha ritenuto che: a) non emergeva dagli atti e documenti acquisiti al giudizio se, quando e quale somma C. avesse pagato anno per anno dopo il 31 dicembre 2003 (anno in relazione al quale la società era pacificamente decaduta dal diritto al rimborso); b) ma prima ancora, se anche l'amministrazione avesse indicato per tempo l'IVA che C. aveva pagato negli anni 2004, 2005 e 2006 (quantificazione esposta per la prima volta nel ricorso per revocazione), e se anche, ciò nonostante, fosse stata ammessa a rimborso l'intera somma pagata anche oltre il semestre, tale svista integrerebbe un errore di diritto e non di fatto, come tale emendabile solo col ricorso per cassazione, atteso che la pronuncia revocanda conterrebbe uno iato tra la decisione ed il principio di diritto posto a suo fondamento in quanto, dopo aver esposto la regola che avrebbe dovuto governare il caso concreto, la CTR ne avrebbe tratto conclusioni errate dando luogo ad un'insanabile antinomia tra il dispositivo e la motivazione e quindi a un errore di giudizio, con conseguente esclusione del rimedio della revocazione;

3. avverso detta sentenza ha proposto ricorso per cassazione l'Agenzia delle Entrate affidato a due motivi, cui ha replicato C. con controricorso illustrato da memoria.

Ritenuto che:

4. è appena il caso di notare che l'erronea indicazione, nell'epigrafe del ricorso, dell'organo giudicante che ha emesso la sentenza impugnata (CTR della Campania, in luogo della CTR dell'Abruzzo-Sezione staccata di Pescara) non ha rilievo in relazione al disposto dell'art. 366, comma 1, n. 2, c.p.c., stante la corretta indicazione degli altri dati identificativi della pronuncia (numero, data della deliberazione e di pubblicazione) e la chiara riferibilità del ricorso alla sentenza in effetti impugnata alla luce della complessiva narrativa del ricorso, dovendosi pertanto rinviare ai consolidati principi di legittimità espressi al riguardo: per tutti, e da ultimo, Sez. 2, 8 gennaio 2016, n. 138 secondo cui «L'erronea indicazione del numero della sentenza impugnata non è causa di inammissibilità del ricorso per cassazione ove la parte cui lo stesso è diretto abbia elementi sufficienti per individuare senza possibilità di equivoci la decisione oggetto di gravame. (Nella specie, la S.C., nel disattendere la censura, ha rilevato che la sentenza impugnata era esattamente indicata nell'epigrafe del ricorso, nello svolgimento dello stesso e nell'elenco degli allegati).»; si v. anche, tra le tante, Sez. L, 24 marzo 2009, n. 7053; Sez. U, 10 dicembre 2001, n. 15603; Sez. 3, 15 dicembre 1981, n. 6635;

5. con il primo motivo di ricorso l'Agenzia delle Entrate denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 64 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 e 395, comma 1, n. 4, c.p.c.: se è «vero che nei precedenti gradi l'Ufficio non aveva fornito nessun dettaglio delle operazioni compiute negli anni ai quali si riferiva il rimborso richiesto dalla parte (...), è evidente che non vi era nessuna esigenza di fornire un simile dato di dettaglio, avendo l'Ufficio contestato la spettanza del rimborso per tutti gli acquisti compiuti oltre 30 giorni prima del momento dell'identificazione, avvenuta il 20 aprile 2006 (e quindi prima del 21 marzo 2006)», tuttavia «ciò non ha nessuna incidenza sulla configurabilità dell'errore di fatto denunciato dall'Ufficio con il ricorso per revocazione; errore che consiste nella mancata percezione del fatto - che la controparte avrebbe dovuto lealmente riconoscere, secondo i principi di buona fede, e che comunque emerge pacificamente dagli elementi che si sono innanzi richiamati - che la causa non aveva ad oggetto gli acquisti compiuti dopo il 10 gennaio 2006 (che potevano essere ammessi a rimborso, in base al principio di diritto enunciato nella sentenza della C.T.R. n. 296/9/13, oggetto di revocazione), ma tutti gli acquisti effettuati nei due anni precedenti il periodo di imposta cui si riferisce la dichiarazione, come la C.T.P. ha espressamente dichiarato nella sentenza di primo grado, come l'Ufficio ha sempre sostenuto e come si desume inequivocabilmente dalle ragioni addotte dalla controparte a giustificazione della propria istanza di rimborso» (pp. 12-13 del ricorso), ragioni fondate sul richiamo alla decadenza biennale ex art. 19 del d.P.R. n. 633 del 1972 e dunque sul riconoscimento del diritto al rimborso per tutti gli acquisti successivi al 10gennaio 2004; pertanto, se «avesse correttamente individuato l'effettiva situazione di fatto, la C.T.R. non avrebbe potuto accogliere integralmente la domanda, ma avrebbe dovuto individuato [sic] e distinguere - nell'ambito della domanda proposta, che si riferiva indistintamente a tutti gli acquisti eseguiti nei due anni precedenti il periodo di imposta cui si riferiva la dichiarazione - gli acquisti compiuti nei sei mesi precedenti la data di identificazione (...)» (p. 15);

6. con il secondo motivo si denuncia ancora violazione e falsa applicazione degli artt. 64 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 e 395, comma 1, n. 4, c.p.c. sotto il diverso profilo dell'erronea sussunzione dell'errore di diritto riscontrato dalla CTR nel vizio di falsa applicazione di legge, denunciabile mediante ricorso per cassazione; al contrario, non sussisterebbe alcun consimile vizio poiché i fatti sarebbero diversi da quelli effettivi, sicché si avrebbe solo un errore di percezione, consistente nell'alterazione della vicenda oggetto del giudizio (erronea convinzione che la causa si riferisse agli acquisti effettuati dopo il 10gennaio 2006, piuttosto che a tutti quelli realizzati dopo il 10gennaio 2004), deducibile esclusivamente con il mezzo della revocazione;

7. il primo motivo è infondato;

7.1. è noto che, in generale, l'"errore di fatto" rilevante ex art. 395 c.p.c. consiste in una falsa percezione della realtà, in un errore, cioè, obiettivamente e immediatamente rilevabile, tale da aver indotto il giudice ad affermare l'esistenza di un fatto decisivo incontestabilmente escluso dagli atti o dai documenti di causa, ovvero l'inesistenza di un fatto decisivo positivamente accertato in essi, e sempre che tale fatto non abbia costituito un punto controverso sul quale sia intervenuta pronuncia, sicché l'errore deve apparire immediatamente rilevabile senza che la sua constatazione necessiti di argomentazioni induttive o di indagini ermeneutiche, non potendo consistere in un preteso inesatto apprezzamento delle risultanze processuali, vertendosi, in tal caso, nell'ipotesi dell'errore di giudizio, denunciabile con ricorso per cassazione (in tali sensi Sez. 3, 20 febbraio 2006, n. 3652; si v. anche, tra le tante e più recentemente, Sez. 5, 22 ottobre 2019, n. 26890, Sez. 5, 30 ottobre 2018, n. 27622, Sez. 5, 30 ottobre 2018, n. 27570); né rientrano nella nozione di errore di fatto, denunciabile mediante impugnazione per revocazione, i vizi relativi all'interpretazione della domanda giudiziale (Sez. 6-L, 15 marzo 2018, n. 6405), così come la valutazione, ancorché errata, del contenuto degli atti di parte e della motivazione della sentenza impugnata costituisce errore di giudizio e non di fatto (Sez. 6-L, 27 aprile 2018, n. 10184);

7.2. ciò richiamato, è allora corretta la ratio decidendi primaria - sintetizzata retro, punto 2, sub b) - della sentenza impugnata: ben vero, e in termini semplici, la doglianza in esame, nel denunciare in sostanza un contrasto tra la decisione (il dispositivo) e la motivazione, va a colpire lo svolgimento del processo argomentativo logico-giuridico seguito dalla CTR, ciò che, di per sé, esclude il presupposto stesso della revocazione;

8. dall'accoglimento del primo mezzo consegue l'assorbimento del secondo.

9. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato; le spese sono regolate secondo soccombenza.

Non sussistono i presupposti per il versamento del doppio contributo, non applicabile nei confronti delle amministrazioni dello Stato poiché esentate dal pagamento delle imposte e tasse che gravano sul processo mediante il meccanismo della prenotazione a debito (Sez. 6-L, 29 gennaio 2016, n. 1778; Sez. 3, 14 marzo 2014, n. 5955).

P.Q.M.

rigetta il ricorso e condanna l'Agenzia delle Entrate alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità che liquida in euro 10.000,00.

Roma, 19 settembre 2019.

 

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