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Prima di esaminare nel dettaglio la pronuncia, semplifichiamo alcuni concetti di base e rispondiamo alle domande più comuni in tema di falsa fatturazione.
Cosa si intende per fatture emesse a fronte di “operazioni oggettivamente inesistenti”?
Si intende che, a parere dell’Agenzia delle Entrate, l’acquisto non è mai avvenuto od il servizio non è mai stato reso. Per converso, sempre a parere dell’Agenzia delle Entrate, il prezzo che figura in fattura non è mai stato corrisposto.
In questo caso secondo l’Agenzia delle Entrate la fattura sarebbe stata emessa per alzare i costi e, quindi, di conseguenza diminuire i redditi (su cui vengono calcolate le imposte).
Negli ultimissimi anni (2017 e 2018) uno dei metodi più comuni utilizzati dall’Agenzia delle Entrate per accertare l’emissione di fatture false (totalmente o parzialmente) è il c.d. spesometro.
Caso diverso è quello delle fatture emesse a fronte di operazioni soggettivamente inesistenti.
Cosa sono le operazioni soggettivamente inesistenti?
Sono operazioni che sono avvenute. Acquisti che sono effettivamente stati fatti o servizi che sono effettivamente stati prestati. Lo stesso prezzo o corrispettivo è stato effettivamente pagato. Tuttavia, le parti della transazione (ad esempio acquirente o venditore) sono diverse da quelle indicate nella fattura.
Un esempio di questa ipotesi l’abbiamo quando il venditore da cui il cliente ha acquistato ha rilasciato al cliente una fattura a nome di un altro (magari costituito proprio per emettere le fatture ma che non pagherà le proprie tasse o addirittura non presenterà la dichiarazione).
In questo caso la domanda che giunge spontanea è la seguente: è responsabile l’acquirente che non sapeva nulla?
Non lo è, ma in molti casi è necessario fare un processo per stabilirlo, difendere il contribuente da contestazioni infondate e far annullare l’avviso di accertamento da un giudice.
Se vinco il processo tributario sono scagionato anche dalle accuse penali?
L’utilizzo e l’emissione di fatture false è reato.
La pena prevista dagli articoli 2 e 8 del D.lgs. 74 del 2000 è la seguente: da un minimo di 1 anno e 6 mesi di reclusione fino ad un massimo di 6 anni di carcere.
E ciò riguarda tanto l’utilizzo di fatture emesse a fronte di operazioni oggettivamente inesistenti che l’utilizzo di fatture emesse a fronte di operazioni soggettivamente inesistenti.
In linea di principio il processo penale e tributario sono separati.
Tuttavia, il processo tributario, spesso (anche se non sempre), si svolge prima (a volte anche di molto) rispetto al processo penale. È evidente che se il contribuente venisse scagionato dalle “accuse” in sede tributaria, e nel processo tributario venisse dimostrato che non vi sono prove a dimostrazione dell’accusa di falsa fatturazione, una volta che si arriverà a celebrare il processo penale si potrà depositare in quel giudizio la sentenza tributaria a riprova del fatto che un giudice ha già valutato il caso ed ha ritenuto che non vi fosse falsa fatturazione, per poi far leva anche su questo elemento per ottenere un’assoluzione anche in sede penale.
Perché nel caso esaminato in sentenza il contribuente ha vinto ed ora non deve pagare più nulla?
Il caso in discussione è un esempio della contestazione di utilizzo di fatture a fronte di operazioni soggettivamente inesistenti e di come spetti all’Agenzia delle Entrate provare che l’acquirente sapeva che il venditore gli stava consegnando la fattura di un terzo.
Nel caso di specie l’Agenzia delle Entrate non aveva fornito prove sufficienti a dimostrazione dell’accusa, e dunque l’atto è stato correttamente annullato.
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Corte di Cassazione
Ordinanza del 25/05/2017 n. 13239
Testo:
avverso la sentenza n. –/--/2015 della COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE DI BARI – SEZIONE DISTACCATA DI LECCE, depositata il –/--/2015;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del –/--/2017 dal Consigliere Dott. ---- ----.
disposta la motivazione semplificata su concorde indicazione del Presidente e del Relatore.
Rilevato che:
Con sentenza in data – -------- 2015 la Commissione tributaria regionale della Puglia, sezione distaccata di Lecce, accoglieva parzialmente l'appello proposto dall'Agenzia delle Entrate, ufficio locale, avverso la sentenza n. –/-/10 della Commissione tributaria provinciale di Lecce che aveva accolto il ricorso della ----- srl unipersonale contro l'avviso di accertamento IRAP, IRES ed altro, IVA ed altro 2003.
La Commissione Tributaria Regionale, nella parte che rileva, osservava in particolare che doveva essere confermata la statuizione della CTP circa l'esistenza delle operazioni di cui alle fatture passive oggetto della ripresa fiscale (specificamente quelle emesse dalla ---- e dalla ---- srl), avendo la società contribuente adeguatamente contro provato gli indizi addotti dall'Ente impositore a sostegno della propria tesi dell'inesistenza quantomeno soggettiva di tali operazioni.
Avverso la decisione ha proposto ricorso per Cassazione l'Agenzia delle Entrate deducendo un motivo unico.
Resiste con controricorso la società contribuente.
Considerato che:
Con l'unico mezzo dedotto - ex art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. Civ. - l'Agenzia fiscale ricorrente si duole di violazione/falsa applicazione degli artt. 19, 54, D.P.R. 633/1972, 2697, cod. civ., poiché la CTR ha erroneamente affermato l'incombenza dell'onere probatorio del diritto alla detrazione dell'IVA all'Ente impositore, piuttosto che al contribuente.
La censura è infondata.
Va infatti ribadito che “In tema di IVA, qualora l'Amministrazione finanziaria contesti al contribuente l'indebita detrazione di fatture, in quanto relative ad operazioni inesistenti, spetta all'Ufficio fornire la prova che l'operazione commerciale, oggetto della fattura, non è mai stata posta in essere, indicando gli elementi anche indiziari sui quali si fonda la contestazione, mentre è onere del contribuente dimostrare la fonte legittima della detrazione o del costo altrimenti indeducibili, non essendo sufficiente, a tal fine, la regolarità formale delle scritture o le evidenze contabili dei pagamenti, in quanto si tratta di dati e circostanze facilmente falsificabili” (Sez. 5, Sentenza n. 428 del 14/01/2015, Rv. 634233 – 01).
Il giudice di appello ha fatto corretta applicazione di tale principio, puntualmente, ancorché sinteticamente, riscontrando sia le prove indiziarie allegate dall'Agenzia fiscale sia, più specificamente, quelle a riprova date dalla società contribuente rispetto ai rapporti contrattuali oggetto della ripresa fiscale ed in particolare quelli con la ---- e con la --- srl, non limitando affatto, come sostiene la ricorrente, la propria valutazione alla mera regolarità formale della contabilità della verificata (fatturazione/registrazione), ma ampliandola anche con un preciso riferimento ai mezzi di pagamento ed alla certificazione pubblica inerente le opere edili de quibus, nonché alle prestazioni fatturate dal legale e dal consulente del lavoro.
A ben vedere dunque lo sviluppo della censura in realtà non configura il vizio di legittimità dedotto, bensì critiche, anche a-specifiche, alle valutazioni di merito della sentenza impugnata, così ponendosi tuttavia in chiaro contrasto con la giurisprudenza di questa Corte secondo la quale “In tema di ricorso per Cassazione, il vizio di violazione di legge consiste in un'erronea ricognizione da parte del provvedimento impugnato della fattispecie astratta recata da una norma di legge implicando necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l'allegazione di un'erronea ricognizione della fattispecie concreta, mediante le risultanze di causa, inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito la cui censura è possibile, in sede di legittimità, attraverso il vizio di motivazione” (ex multis Sez. 5, n. 26110 del 2015).
Per altro verso va ancora osservato il difetto di autosufficienza del mezzo dedotto dall'agenzia fiscale, poiché al di la delle ragioni di diritto addotte in astratto, non vi è la puntuale allegazione delle ragioni di fatto per le quali le fatture in contestazione debbano considerarsi “soggettivamente inesistenti”.
Il ricorso va dunque rigettato.
Le spese seguono la soccombenza e vanno liquidate come in dispositivo.
Rilevato che risulta soccombente una parte ammessa alla prenotazione a debito del contributo unificato per essere amministrazione pubblica difesa dall'Avvocatura Generale dello Stato, non si applica l'art. 13 comma 1- quater, D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 (Sez. 6- L, Ordinanza n. 1778 del 29/01/2016, RV. 638714 – 01).
PQM
La Corte rigetta il ricorso; condanna l'Agenzia fiscale ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in euro 5.600 oltre euro 200 per esborsi, 15% per contributo e spese generali ed accessori di legge.
Così deciso in Roma, 20 aprile 2017
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