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Estratto: “l'istanza di rimborso riguardava sia i dividendi percepiti dalla società, che le ritenute bancarie afferenti il periodo d'imposta in contestazione, va rilevato che il giudice d'appello si è pronunciato ed ha preso in considerazione esclusivamente la mancata allegazione, da parte della società, delle certificazioni relative alle ritenute bancarie, senza vagliare la documentazione prodotta, ritualmente, nel giudizio di secondo grado, dalla contribuente in riferimento alle ritenute sui dividendi; e tale circostanza appare decisiva al fine di stabilire se, in relazione alle ritenute sui dividendi competesse il rimborso del credito d'imposta”.

Estratto: “In tema di società di comodo, l'art. 30 della I. n. 724 del 1994, al comma 1, prevede una presunzione legale relativa, in base alla quale una società si considera "non operativa" se la somma di ricavi, incrementi di rimanenze e altri proventi (esclusi quelli straordinari) imputati nel conto economico è inferiore a un ricavo presunto, calcolato applicando determinati coefficienti percentuali al valore degli asset patrimoniali intestati alla società (cd. "test di operatività dei ricavi"), senza che abbiano rilievo le intenzioni e il comportamento dei soci, ma poi, al successivo comma 4-bis, consente la presentazione dell'istanza di interpello (chiedendo la disapplicazione delle "disposizioni antielusive"), in presenza di situazioni oggettive (ossia non dipendenti da una scelta consapevole dell'imprenditore), che abbiano reso impossibile raggiungere il volume minimo di ricavi o di reddito di cui al precedente comma 1, così rispondendo all'esigenza di dare piena attuazione al principio di capacità contributiva, di cui la disciplina antielusiva è espressione, lasciando nel contempo spazio al diritto di difesa del contribuente, sufficientemente garantito dagli strumenti del contraddittorio e dalla necessità di una motivazione puntuale della condotta elusiva nell'avviso di accertamento”.

Estratto: “I costi e gli oneri sono deducibili se ed in quanto si riferiscono ad attività da cui derivano ricavi o proventi che concorrono a formare il reddito d'impresa», senza alcuna distinzione tra interessi passivi ed altri costi ed oneri, mentre l'art. 75, comma 5, T.U.I.R. (ora art. 109) pone una disciplina diversa poiché prevede che «Le spese e gli altri componenti negativi diversi dagli interessi passivi, tranne gli oneri fiscali, contributivi e di utilità sociale, sono deducibili se e nella misura in cui si riferiscono ad attività o beni da cui derivano ricavi o altri proventi che concorrono a formare il reddito»: da tale norma, sicuramente di portata generale per la determinazione del reddito d'impresa, emerge chiara la volontà legislativa di riconoscere un trattamento differenziato per gli interessi passivi rispetto ai vari componenti negativi del reddito d'impresa, nel senso che il diritto alla deducibilità degli interessi è riconosciuto sempre, senza alcun giudizio sulla inerenza, anche se nei limiti della disciplina contenuta nell'art. 63 T.U.I.R. (ora art. 96, indicante la misura e le modalità di calcolo degli interessi passivi deducibili in via generale nella previsione del comma 1, ed in via particolare nella fattispecie disciplinata nel comma 3), donde i principi fissati dalla giurisprudenza sopra richiamata”.

Estratto: “La sentenza impugnata è incorsa nella violazione del DPR 633/1972, in particolare dell'art. 6 commi il quale così dispone: "Se anteriormente al verificarsi degli eventi indicati nei precedenti commi o indipendentemente da essi sia emessa fattura, e sia pagato in tutto o in parte il corrispettivo, l'operazione si considera effettuata, limitatamente all'importo fatturato o pagato, alla data della fattura o a quello del pagamento".

Estratto: “La Corte di legittimità ha esplicitato la nozione di autonoma organizzazione nell'esercizio dell'attività di lavoro autonomo, riconoscendola ai fini IRAP quando il contribuente: a) sia, sotto qualsiasi forma, il responsabile dell'organizzazione, e non sia quindi inserito in strutture organizzative riferibili ad altrui responsabilità ed interesse; b) impieghi beni strumentali eccedenti, secondo l'id quod plerumque accidit, il minimo indispensabile per l'esercizio dell'attività in assenza di organizzazione, oppure si avvalga in modo non occasionale di lavoro altrui”.

Estratto: a fronte della difesa e delle ragioni allegate dalla contribuente, la motivazione della sentenza sorvola su fatti che assumevano invece valenza decisiva ai fini della decisione -ad es. la circostanza che i soci fossero gli ex dipendenti di una società fallita, riuniti nella forma cooperativa a mutualità prevalente-. Ma soprattutto non tiene conto del principio, ormai consolidato, secondo cui, a fronte delle allegazioni e delle ragioni esposte dal contribuente a giustificazione dello scostamento del reddito dallo studio di settore applicato, sorge l'onere della Agenzia di dimostrare l'applicabilità in concreto dello "standard" prescelto, nonché di esporre le ragioni per le quali non sono state ritenute attendibili le allegazioni del contribuente. La sentenza impugnata non fa corretta applicazione dei suddetti principi, non avvedendosi che in tal modo manca la presenza di indizi gravi e concordanti, idonei a provare presuntivamente il maggior reddito contestato dalla Agenzia alla società”.

Estratto: “è noto che, in generale, l'"errore di fatto" rilevante ex art. 395 c.p.c. consiste in una falsa percezione della realtà, in un errore, cioè, obiettivamente e immediatamente rilevabile, tale da aver indotto il giudice ad affermare l'esistenza di un fatto decisivo incontestabilmente escluso dagli atti o dai documenti di causa, ovvero l'inesistenza di un fatto decisivo positivamente accertato in essi, e sempre che tale fatto non abbia costituito un punto controverso sul quale sia intervenuta pronuncia, sicché l'errore deve apparire immediatamente rilevabile senza che la sua constatazione necessiti di argomentazioni induttive o di indagini ermeneutiche, non potendo consistere in un preteso inesatto apprezzamento delle risultanze processuali, vertendosi, in tal caso, nell'ipotesi dell'errore di giudizio, denunciabile con ricorso per cassazione (…); né rientrano nella nozione di errore di fatto, denunciabile mediante impugnazione per revocazione, i vizi relativi all'interpretazione della domanda giudiziale (Sez. 6-L, 15 marzo 2018, n. 6405), così come la valutazione, ancorché errata, del contenuto degli atti di parte e della motivazione della sentenza impugnata costituisce errore di giudizio e non di fatto".

Estratto: “Il rapporto di diritto tributario esistente tra l'amministrazione finanziaria, la quale chieda la restituzione del rimborso d'imposta, ed il contribuente ha natura distinta dal rapporto di diritto privato esistente tra la stessa amministrazione e la società assicuratrice che abbia garantito con polizza fideiussoria la restituzione del rimborso. Ne consegue che l'accertamento fiscale compiuto dall'erario nei confronti del contribuente, e la cartella esattoriale conseguentemente emessa, non costituiscono titolo esecutivo nei confronti della compagnia garante”.

Estratto: “Tanto premesso, in ordine alla ricorrenza, in punto di fatto, della "novità" dell'immobile acquisito dalla contribuente, la motivazione della sentenza impugnata appare oscura, e comunque apodittica, laddove riferisce di una «evidente» discrasia tra le dichiarazioni della contribuente e della terza S. s.p.a., senza precisare né quali siano gli «atti prodotti» dai quali risulterebbe tale contrasto, né quale sarebbe l'oggetto della contraddizione. Tanto meno risultano comprensibili i riferimenti alla mancanza del «requisito della volontà al momento richiesto», all' «adempimento dell'onere della prova durante l'accertamento» ed alla «identica» «decisione dell'atto di acquisto». In tale contesto, assolutamente insufficiente a dare cognizione delle ragioni della decisione sul punto, neppure è identificabile un riferimento univoco e concreto alle circostanze, attinenti le caratteristiche del bene ed i lavori sullo stesso eseguiti, cui si riferisce la documentazione che la ricorrente ha prodotto nel giudizio di merito (come risulta dalle plurime indicazioni contenute nel ricorso e non contestate dalla controricorrente)”.

Estratto: “(...) Tali rilievi critici, però, superano il limite del vizio della violazione di legge e sono diretti, in modo non consentito, a sollecitare la Corte, cui è demandato esclusivamente il controllo sulla legalità e sulla logicità della decisione (Cass. 24/11/2016, n. 24012), ad un accertamento di fatto - e cioè se il C. avesse o meno i caratteri dell'ente commerciale - già compiuto dal giudice di merito”.